La domanda posta nel titolo di questo articolo risulta essere, nella mia esperienza, il quesito implicito o esplicito presente a inizio di ogni nuova conoscenza professionale. Dal bambino con Bisogni Educativi Speciali che chiede – davanti a un tavolo imbandito di quaderni e libri – “cosa devo fare?”, all’adulto che dopo essersi presentato – apparendo ancora visibilmente scomodo sul divano o la poltrona a disposizione – esita, domandando “cosa devo fare?”, alla coppia o famiglia che dopo aver occupato lo spazio a disposizione nel modo che più è venuto naturale, chiede – e si chiede – “cosa dobbiamo fare?”.
Credo che questa apparentemente semplice domanda non celi solo l’imbarazzo della partenza, ma in qualche modo rappresenti, con innumerevoli sfumature, anche le aspettative del viaggio. Aspettative che risultano allo stesso tempo cariche di fiducia e gonfie di timori. Ma già in questa esperienza, che potrebbe venir interpretata quale semplice domanda sociale (alla stregua di “come stai?”) o come primo movimento di delega (il paziente sta già cercando di dirottare la responsabilità sul terapeuta!), è raccolto il seme più importante di ogni valida premessa psicoterapica: l’individuo – o il sistema – che abbiamo di fronte sa già contemplare l’idea che qualcosa possa essere “fatto” per comprendere o stare meglio. Magari inconsapevolmente o in maniera ancora poco funzionale, ma dentro ognuno è presente la forza di riconoscere i conflitti, le forze opposte e contrastanti che segnalano le difficoltà e i disagi interni. La grande forza di ogni psicoterapia, del resto, è proprio quella di allenarsi a fronteggiare questi conflitti e queste forze, rendendo il percorso non più agevole, ma più coerente.
Ecco perché alla domanda “cosa devo fare?” preferisco rispondere che non solo non ne ho idea e che lo scopriremo subito insieme, ma anche che – a un certo punto – probabilmente non sarà più avvertita come necessaria la risposta a questa domanda… perché sarà questa stessa domanda ad essersi trasformata in qualcos’altro.