Quando ci troviamo a lavorare con coppie separate o divorziate, con figli che mostrano segni particolari di disagio psicologico e comportamentale, spesso una delle dimensioni critiche da subito emergenti riguarda i livelli della coppia. Cosa intendiamo con livelli della coppia? Seppur sintetizzando la risposta con una veloce istantanea, si tratta della possibile confusione tra piano coniugale e piano genitoriale. In questo caso il nostro compito, come prima pulizia del campo caotico in cui queste famiglie sono intrappolate, è di provare a ridefinire da subito gli spazi e i confini dei due livelli.
Una coppia di coniugi, ad un certo momento della propria vita e per i più differenti motivi, può decidere di rompere ufficialmente il proprio patto iniziale e, quindi, di separarsi. Questa fase, ad esempio, è un altro momento tipico in cui uno psicoterapeuta familiare può sostenere la difficile transizione della coppia. Spesso però le situazioni presentano, per come si sono strutturate nel tempo, differenti caratteristiche ed è quindi difficile definire in un completo ed esaustivo elenco tutte le casistiche che possiamo incontrare nella nostra pratica professionale. Quello che invece vorrei qui sottolineare sono tutte quelle fattispecie in cui, arrivati alla consultazione ad esempio per un figlio segnalato dalle agenzie educative come “problematico”, i membri della coppia – ormai ex coniugi – tentano un’inconsapevole manovra di parcheggio dello stesso figlio dallo psicoterapeuta. Ovviamente in questo spazio si giocano ansie, paure di vecchie – magari neanche troppo vecchie – ferite, timori di rimetter mano a equilibri, ritrovati con fatica, da parte dei singoli membri della coppia, a seguito della separazione.
Ecco allora che confondere piano coniugale e piano genitoriale diventa un modo – più o meno consapevole – per proteggersi dall’angoscia di dover potenzialmente rimescolare le carte. Spazzare il campo da questa confusione, perciò, non può e non deve assolutamente precludere la legittima attenzione e il necessario rispetto che dobbiamo a quella che resta, a tutti gli effetti, una vera e propria coppia. Non è più una coppia di coniugi, ma resterà sempre una coppia di genitori. Sono quindi almeno due le coppie che vediamo in terapia, anche se sul nostro divano ne siede una sola.
Tutto ciò, inoltre, non è solo un metodo, un esercizio di stile psicoterapico o un approccio dettato dal singolo orientamento dello psicoterapeuta. Quello che la nostra pratica clinica ci pone di fronte è il letto del fiume da cui i conflitti di questi livelli confusi di coppia tracimano, toccando la giovane vegetazione sulla sponda: i figli.
Se è vero, come scriveva Carl A. Whitaker, che “ogni matrimonio è una battaglia tra due famiglie che lottano per riprodursi”, una volta che questa lotta si è consumata e il matrimonio non è più il reale palcoscenico della coppia coniugale, dobbiamo far sì che quella genitoriale continui a dialogare, collaborare, negoziare e trasferire comunicazioni coerenti ai figli. Come fare tutto ciò penso possa essere riassunto nell’idea di una cura artigianale da costruire piano piano e caso per caso.