“Il visconte dimezzato” è un romanzo di Italo Calvino, scritto nel 1952 e facente parte di una trilogia slegata dal nome “I nostri antenati”, che comprende anche le opere “Il barone rampante” del 1957 e “Il cavaliere inesistente” del 1959. Tale trilogia fu assemblata solo dopo la pubblicazione separata dei tre romanzi citati. Mentre gli ultimi due romanzi menzionati esprimono rispettivamente i temi della distanza e dell’incomprensione verso l’altro e quelli della concretezza e del vuoto dell’animo umano, “Il visconte dimezzato” – sempre attraverso un’ottica prevalentemente aut aut – affronta una vera e propria frattura. Il protagonista Medardo, visconte di Terralba, viene infatti letteralmente dimezzato da una palla di cannone durante una battaglia. Le due parti, ricucite dapprima separatamente, ne esprimeranno – e simboleggeranno – il bene e il male, fino alla ricomposizione completa della frattura col ricongiungimento dei due mezzi visconti.
Spesso in psicoterapia ci troviamo ad affrontare questo tipo di distinzioni binarie, queste dicotomie rigide, queste ambivalenze parziali, tanto che questa caratteristica aut aut risulta spesso la dimensione principalmente bloccante delle storie narrate nei salotti terapeutici.
Volendo provare a cavalcare la similitudine narrativa, regalataci dalla straordinaria penna di Italo Calvino, si potrebbe quasi azzardare l’idea che la difficoltà di realizzare una storia così polarizzata derivi dalla stessa difficoltà che ognuno di noi può sperimentare quando, avvertendo un ostacolo nella propria vita, sintetizza un vissuto interno, uno stato d’animo o un conflitto interiore frammentandoli appunto in due parti, la propria parte sana e la propria parte malata.
Il paradosso e la forma subdola di questa semplificazione stanno proprio nella ferrea separazione duale (mente-corpo/bene-male/buono-cattivo/io-l’altro/etc.) che crea un circolo vizioso tra ciò che tentiamo di leggere in noi stessi e il contenitore rigido caratteristico di una lettura di questo tipo. Modificare tale visuale non va solo nella direzione di una costante ricerca di nuovi equilibri e di nuove integrazioni di parti di noi stessi, ma anche in quella di allenarci ad allargare le premesse della nostra mente nel contemperare gli opposti, nel mettere insieme plurimi aspetti apparentemente contraddittori dei nostri vissuti interni, dei nostri stati emotivi, delle nostre connessioni relazionali.
C’è però un momento, nel romanzo, in cui sembra quasi affacciarsi la possibilità di allargare, appunto, il problema: “Meno male che la palla di cannone l’ha solo spaccato in due” dicevano tutti; “se lo faceva in tre pezzi, chissà cosa ancora ci toccava di vedere.” Ampliare il problema, seppur apparentemente più difficoltoso, è spesso la strada maestra per intercettare la moltitudine di parti di cui siamo irrimediabilmente puzzle.
Mi piace allora immaginare Medardo, appena ricucito delle sue due parti, bussare allo Studio de Il Cavallino Blu e, una volta in poltrona (anche se a Studio per bontà di cronaca c’è a disposizione un divano), chiedere: “Ho ricucito le due parti, ma c’è ancora qualcosa che non mi torna. Lei fa fattura, vero, dottore?”