Trovo che rileggere i propri casi, soprattutto se datati e apparentemente sovrascritti da quelli più recenti, sia inevitabile. Coppie, famiglie, pazienti e pazientini restano. E non si tratta solo di meccanici depositi in memoria. In questo mestiere non poni mai le basi del cambiamento e delle sfide evolutive se non sei disposto per primo a cambiare con loro. Carl Whitaker, uno dei grandi pionieri e maestri della psicoterapia familiare scriveva:
“Quando incontro una famiglia, sono assolutamente sicuro che i suoi membri hanno in loro la capacità di lottare e di crescere; non c’è bisogno di stabilire o valutare questo fatto, so già che è possibile. La vera questione diventa quella del coraggio, sia da parte mia sia da parte loro. Siamo disposti a correre il rischio di avventurarci in acque inesplorate?”.
Mi torna in mente una bimbetta di 5 anni, che oggi ne avrà un po’ più del doppio, all’epoca in fase di adozione da parte di una coppia senza figli naturali. Abbandonata alla nascita dalla madre biologica, viveva in casa-famiglia. La ricordo sorridente, vivace, curiosa e attenta alle regole del contesto che le venivano proposte. Non scorderò mai il modo che aveva di interpretare La Bella Addormentata. Quello che non ricordo distintamente sono tutte le domande e ipotesi terapeutiche che feci allora. Adesso, provando a giocare con i ricordi, e chiedendomi perché avrebbe dovuto scegliere spontaneamente di impersonare una principessa che aspetta il principe azzurro a svegliarla, a salvarla e a portarla via, mi viene da (ri-)pormene alcune.
Partiamo da una premessa che sento doverosa: il gioco dovrebbe essere sempre letto a più livelli. Così, ad esempio, la messa in scena dell’attesa potrebbe esprimere la dimensione relazionale del trauma passato e delle nuove figure d’attaccamento presenti e future? Oppure la dimensione narrativa (del resto inscenava una fiaba!), metafora della propria capacità auto-riparativa? O ancora la dimensione simbolica dell’accesso alle proprie risorse? Ed io, in tutto questo, che ruolo avevo? Ero il principe, uno spettatore, un narratore? E quali le mie dimensioni nel gioco condiviso con lei?
Utilizzare una fiaba (e i suoi simboli) vuol dire anche narrare la propria storia nuovamente e con qualcun altro. I bambini, nel corso degli anni, mi hanno sempre mostrato che laddove è previsto “vissero felici e contenti”, per loro è come se fosse “vissero tutti insieme, felici e contenti”.
Durante un convegno di un paio d’anni fa, conclusi un mio intervento sulla terapia di gioco in età evolutiva con alcune parole prese in prestito da Michel De Montaigne, prestito che rinnovo anche ora e in conclusione di queste righe: “I giochi dei bambini non sono giochi, e bisogna considerarli come le loro azioni più serie”.