Credo che la musica sia una sorta di entità intangibile, capace di sfuggire a ogni descrizione generale, potendo al contempo essere raccontata da ciascuno di noi in infiniti modi diversi.
A valle di una passione personale e di studi di vario genere in ambito musicale, ho cominciato ad utilizzare la musica in ambito educativo, clinico e riabilitativo non più in là di 6 anni fa. L’occasione mi è stata involontariamente data da un bambino di 5 anni, con un severo disturbo del linguaggio e della comunicazione socio-pragmatica. Il gioco terapeutico che avevamo cominciato a strutturare prevedeva solo la nostra reciproca e silenziosa presenza, tutto ciò mentre manipolavamo oggetti di vario tipo (tutti a carattere ludico). Un giorno, seduti a terra, mi alzo per rimettere a posto un gioco e prenderne un altro quando – di spalle al bambino – mi sento strattonare delicatamente. Mi mostra l’anima di un rotolone di scottex che aveva in mano, mimando il desiderio di cantare come fosse un microfono. Prendo alcuni strumenti musicali in quel momento a disposizione e, senza dire nulla, il bambino comincia a intonare un brano di Marco Mengoni. Dopo le prime strofe sorride, riafferra sempre delicatamente i miei pantaloni – come a “tenersi” in piedi – e va avanti a cantare dopo una breve interruzione.
A distanza di un paio di anni, con alcuni bambini che seguivo come educatore, mi capita di dover cominciare a ragionare e strutturare un approccio di propedeutica musicale adattato ai fini del contesto psicoeducativo di riferimento. Senza scegliere dicotomicamente di iniziare da ritmo o melodia, comincio a lavorare in maniera parallela su entrambe queste dimensioni, lasciandomi guidare poi dal singolo bambino in merito a naturali inclinazioni emergenti o esplicite richieste in sede di incontro. Da quel momento, anche per i bambini con profili più severi di deficit o disturbo, ho introdotto quando possibile la musica come medium relazionale, d’apprendimenti (piccoli schemi ritmici e melodici costruiti ad hoc) e socio-esplorativo.
Anche con gli adulti, con le coppie e con le famiglie, a seconda dei momenti e dei contesti, prendo in prestito canzoni da ascoltare insieme o a distanza. Nelle fasi conclusive di percorsi psicoterapici complessi, ad esempio, è risultato interessante “salutarci” con le note di un brano musicale.
Mi viene infine in mente un paziente psichiatrico, giovane adulto, conosciuto in contesto pubblico, per il quale il contenimento della sua rabbia esplosiva si attivava solo se lui stesso riusciva autonomamente a collegarsi con la musica e a cantare insieme agli operatori.
L’aspetto straordinario di includere la musica nel lavoro psicologico credo risieda nella prontezza ad ascoltare quel potenziale momento in cui – che siano di fronte a noi bambini o adulti – percepiamo quel muto grido esortativo “Musica, Dottore!”