Una delle scoperte, già agli inizi della personale formazione specialistica, che più ha guidato il mio cammino di ricerca di senso in questo meraviglioso mestiere che è la psicoterapia, è stata questa: uscire fuori dalla logica – lineare – del “malato” in famiglia. E virgoletto volutamente “malato” almeno per due ordini di intenzioni: malato nel senso di chi soffre e malato nel senso di chi, in questo modo, trova il modo di segnalare la sofferenza di chi gli è accanto. La mia preparazione e l’esperienza sul campo mi spingono costantemente, quando ho davanti a me un individuo, una coppia o una famiglia, a intercettare l’intero sistema di relazioni come portatore di sofferenza. Se un figlio sta male, stanno male tutti; se un padre o una madre soffrono, soffrono tutti.
Questa considerazione mi ha portato nel tempo anche ad assimilare un’altra attenzione: quella per i sintomi. Ma non nel senso di andarne a caccia, di riconoscerli, o ancora di inscriverli in attente categorie psicopatologiche. Il rispetto dei sintomi, per me, rappresenta la chiave più autentica e legittima che quell’individuo – membro di un qualsivoglia sistema di relazioni – ha trovato (in maniera rigorosamente inconsapevole) per denunciare un blocco, un dolore, un problema, un disagio, una sofferenza, che assumono sia la forma di macigni intenzionati a interrompere la via verso un cambiamento, che quella di macigni desiderosi di segnalare la volontà di un cambiamento.
Il senso di appartenenza è qualcosa che attraversa ogni relazione, come il bisogno di individuarsi. Il sintomo è come un pendolo a moto perpetuo, rispetto al quale risulta difficile scendere a patti con questa costante oscillazione. Se ci appoggiamo all’appartenenza ne usciamo con un senso di schiavitù nei confronti dell’altro, se ci individuiamo e basta è come se separassimo, scollegassimo, forse addirittura rinnegassimo le nostre radici relazionali.
Forse dovremmo davvero imparare dal mare a improvvisare, oscillando continuamente, senza perderci però nel suo continuo moto ondoso. Come possiamo, nello stesso tempo, stare con e stare senza? Come possiamo evitare questo potenziale paradosso? Forse proprio giocando a carte scoperte, con questo paradosso. Un po’ come la storia di quel paziente che soffre per il non essere mai sicuro di se stesso e alla domanda se ne è certo risponde di sì, di non dubitarne affatto.